Quando pratichiamo Aikido, ci alleniamo in forme base, categorizzate in esercizi incrementali che hanno lo scopo di sviluppare una comprensione tangibile dei principi della disciplina.
Dai primi keiko in poi, studiamo il primo principio -ikkyo.
Internet è ricca di descrizioni molto accurate e precise su cosa sia o non sia ikkyo. Per coloro che non sanno di cosa stiamo parlando in questo articolo, basti dire che ikkyo è il principio sottostante l’immobilizzazione del partner, ottenuta allineando il braccio e la spalla del partner allo stesso livello della settima vertebra cervicale, una volta che il partner è stato portato a terra (gentilmente, se stiamo praticando Aikido…).
Fare e ricevere ikkyo migliaia di volte -al cambiare continuo dei ruoli sul tatami – aiuta a identificare alcuni confini che sono molto facili da oltrepassare.
Il confine della forza, quello dell’intenzione, il confine della tecnica e quello della volontà di controllare tutto.
Diventa più chiaro allenamento dopo allenamento che molto spesso ci affidiamo troppo alla forza, soprattutto quando l’intenzione non è così chiara e gli aspetti tecnici diventano ostacoli che superiamo aggiungendo indebitamente pressione e forza.
Ma il confine più potente e pericoloso che incontriamo nella nostra pratica, e spesso oltrepassiamo, è la volontà di controllare tutto.
Il controllo è un’attitudine. Come tale non è cattivo né buono. Dipende dagli obiettivi che vogliamo raggiungere lasciando che tale attitudine si impersonifichi in noi stessi.
Viviamo immersi in un mondo che rende il controllo un must – e spesso con il nostro permesso. Vogliamo essere sempre connessi, magari solo per controllare le nostre e-mail, lo stato dei nostri amici su Facebook e, allo stesso tempo, siamo controllati.
Ci piace pensare di avere sempre l’ultima parola, di poter prendere noi le decisioni che contano. Adoriamo pensare che siamo noi a scegliere.
L’esperienza di vita reale racconta un’altra storia. È vero che ci sentiamo direttamente o indirettamente limitati e in qualche modo controllati: governo, tasse, lavoro, relazioni, doveri, …
Ed è in quel preciso istante che cerchiamo di bilanciare quella sensazione attraverso il medesimo strumento: controllare gli altri. Anzi: più cerchiamo di controllare le situazioni intorno a noi, più sentiamo un senso di frustrazione e più, naturalmente, le affronteremo con maggiore velleità di controllo .
Quindi, perché dovrebbe essere diverso quando pratichiamo ikkyo nel nostro dojo?
In effetti, non è diverso. Succede molte volte di concentrare ogni sforzo per raggiungere il perfetto controllo del nostro partner.
È questo l’obiettivo finale? Forse sì, se limitiamo l’indagine all’aspetto tecnico dell’arte.
Ma se facciamo un ulteriore passo avanti… Non è un po’ ridicolo pensare di avere il pieno controllo del nostro partner quando il nostro partner è di fronte a noi, inteso come mezzo, come personaggio di un ambiente di combattimento simulato, che è lì per facilitare il nostro processo di apprendimento?
Cosa succederebbe se il nostro partner reagisse in un modo diverso?
Un sacco di persone sprecano molto tempo a discutere dell’efficacia delle arti marziali, prendendo sul personale tutte le discussioni che nascono da quell’argomento.
Ragionare su ikkyo non significa parlare del modo più efficace per sottomettere un nemico. Piuttosto, ragionare su ikkyo può voler dire sforzarsi di evitare la tentazione di scambiare il controllo per la spontaneità, il vero obiettivo con uno dei suoi aspetti.
Allora, perché siamo invitati a “essere” ikkyo? Sicuramente non per scopi di controllo sociale. Piuttosto per divenire quel tipo di essere che è in grado di staccarsi dalla necessità di controllare qualcosa o qualcuno, riconoscendo i modelli comportamentali innescati dai meccanismi di controllo e quindi diventando in grado di lasciar andare quei sentimenti, per essere davvero libero.